Chissà se la Commissione agricoltura della Camera prima, e il Governo poi, approvando di recente il nuovo testo unico sulla produzione e il commercio delle sementi (il dlgs. n. 20/2021) e ammettendo lo scambio di sementi fra agricoltori, pensavano alle esigenze di una moderna agricoltura di mercato, oppure a quelle di produzioni hobbistiche o legate a un’economia di autoconsumo.
Se poi pensavano di fare uno sgambetto alle “quattro multinazionali che controllano nel mondo il 60% delle vendite di sementi proprietarie”, obiettivo sbagliato, anzi misura autolesionistica: saranno proprio le piccole e medie aziende sementiere (italiane) a soffrirne di più.
Immaginatevi gli agricoltori scambiarsi le sementi di mais ibrido, di barbabietola da zucchero, oppure ancora di varietà da orto altamente professionali, mentre la tentazione e il rischio ovviamente c’è per i cereali autunnali, il riso, le foraggere che caratterizzano buona parte delle nostre produzioni tradizionali.
Attenzione alle privative
La novità dello scambio di sementi tra agricoltori vale ovviamente solo ai fini della nostra legge che disciplina la produzione e il commercio di sementi, non certo delle norme che riguardano le privative varietali, sia nazionali che comunitarie, cioè i cosiddetti brevetti vegetali.
Le privative riservano esclusivamente al titolare o ai suoi concessionari la vendita e ogni altra forma di commercializzazione del materiale riproduttivo di una varietà tutelata. E lo scambio di beni, sementi comprese, in particolare dal punto di vista fiscale, dato che l’agricoltore è un imprenditore, è poi di fatto una compravendita.
Considerando che la quasi totalità delle varietà di più recente costituzione e coltivate è coperta da una privativa, niente di più facile che con lo scambio del seme si compia un illecito. A parte il fatto che il nuovo testo unico sementi è ancora in attesa del visto di conformità da parte della Commissione Ue, trattandosi formalmente di un recepimento di norme comunitarie, anche se con i tempi che corrono gli organismi europei hanno ben altro cui pensare.
Perché il seme certificato
Siamo oramai in tempo di raccolta dei primi cereali, quindi non solo ansiosi di vedere il risultato quali-quantitativo della nuova produzione, ma anche prossimi a decidere quanto della produzione programmata di sementi destinare effettivamente alla rimonta, come aziende sementiere, e invece ordinare o acquistare, come rivenditori. Continuerà l’erosione della quota di sementi certificate (che per il frumento duro veleggia oramai sotto il 50%, mentre anche il tenero ci si sta avvicinando), o siamo vicini ad uno zoccolo duro, ma soprattutto, quali motivazioni portare per fare capire all’agricoltore l’importanza dell’utilizzo di seme certificato?
Nel box sono riportati in sintesi, dall’ultima iniziativa istituzionale di Assosementi, l’Associazione delle aziende sementiere, le principali ragioni che sono a favore del prodotto certificato.
Per brevità di spazio commentiamo quelle che reputiamo oggi fondamentali, spendendo poche parole sulla questione del costo di produzione, della contrapposizione tra il risparmio immediato (apparente) con la scelta del reimpiego aziendale, ed il costo concreto (che poi è un investimento) legato all’acquisto del seme certificato. Anche perché il risparmio di pochi o di qualche decina di euro per ettaro non può essere il fattore critico di una produzione agricola che voglia vantare connotati qualitativi a tutto tondo.
Peraltro, il differenziale che sfavorisce il prodotto certificato, rispetto a quello aziendale, oggi mediamente sui 20 euro per ettaro per i frumenti ed in buona parte dipendente dalla lavorazione e concia industriale della granella, nonché dall’intermediazione commerciale, tende a ridursi percentualmente come incidenza con l’aumentare delle quotazioni di mercato del prodotto da macina.
Filiere e tracciabilità
Accanto all’aspetto del servizio (il seme acquistato è già pronto per essere impiegato) e al rispetto della legalità, la spinta maggiore ad utilizzare semente certificata viene oggi dai rapporti di filiera. In particolare da quelle aziende di trasformazione che legano i loro prodotti finali ad una precisa immagine di identità e quindi di tracciabilità. La quale non può fare a meno di un seme gestito in modo analogo e tale da assicurare elevate garanzie.
La “Carta del mulino” di Barilla per il grano tenero, con i relativi accordi di produzione con cui punta a coinvolgere almeno 5mila aziende agricole, prescrive l’impiego di sementi certificate. Per il grano duro sempre Barilla ha legato in contratti di filiera oltre 8mila agricoltori a livello nazionale e nell’accordo in vigore da anni in Emilia-Romagna è stabilito l’utilizzo di prodotto certificato.
Un altro esempio è rappresentato dal disciplinare di produzione della filiera “Grano Armando”, che nel centro-sud ha interessato nella campagna 2019-2020 circa 15mila ettari di grano duro. Anch’esso prevede l’uso obbligatorio di semente certificata.
Analogamente, per accedere al “Fondo grano duro” stanziato dal 2016 dal Ministero delle politiche agricole, che concede agli agricoltori che stipulano contratti di filiera della durata di almeno tre anni un aiuto massimo pari a 100 euro/ettaro, è necessario utilizzare sementi certificate.
Il fondo è già stato finanziato anche per il 2020-2021 e il 2021-2022 con un importo di 10 milioni di euro a campagna. Per l’anno 2018, con 203mila ettari a contratto, il premio è stato pari a 100 euro/ha; per il 2019, con 186mila ettari, il premio è sceso invece a 54 euro, causa la minore dotazione ministeriale.
Dal 2020 è stato poi stanziato un fondo di 20 milioni di euro per la competitività delle filiere del mais e delle proteine vegetali, sempre tramite lo strumento del contratto di filiera. Per il 2020 al mais è stato corrisposto un premio di 74 euro/ha, mentre a soia e legumi (pisello, fava e favino da granella; fagiolo, lenticchia, cece) un premio di 61 euro. La circolare di Agea del luglio 2020 con le istruzioni per la campagna passata ha previsto che “l’utilizzo di sementi certificate, in particolare per mais, soia, pisello proteico e favino, sarà disciplinato con specifico provvedimento ai fini dell’erogazione dell’aiuto per l’annualità 2021”.
Sementi elette
Sementi elette è la denominazione che si diffuse negli anni ’20 (del secolo scorso!) per identificare le sementi di qualità delle “razze elette” selezionate dal grande genetista Nazareno Strampelli.
Nello scenario che sembra delinearsi potrebbe essere utile rispolverare questo appellativo, per differenziare tra il cosiddetto seme aziendale (reimpiego, scambio fra agricoltori?), le sementi acquistabili, ufficialmente certificate, e infine le sementi sempre certificate, ma elette perché destinate alle filiere.
È quanto lascia forse intravvedere il disciplinare “seme di qualità” lanciato lo scorso anno dal Convase (Consorzio valorizzazione sementi) e che proprio recentemente ha registrato la piena adesione da parte delle Organizzazioni agricole nazionali e dell’Alleanza delle cooperative, a parte Coldiretti.
Ricordiamolo sempre all’agricoltore…
Il seme certificato è:
- garantito, in quanto controllato ufficialmente e conforme ad elevati requisiti qualitativi;
- conveniente, sebbene determini un costo di produzione superiore al reimpiego aziendale, perché presenta requisiti qualitativi e garanzie che comportano nel complesso un vantaggio economico;
- legale, dato che consente di operare nella piena legalità;
- tracciato, e quindi il punto di partenza indispensabile per tutte le filiere di qualità;
- frutto della ricerca, perché espressione della costituzione e dell’innovazione varietale, che nello stesso tempo la vendita della sementi contribuisce a sostenere.
(Sintesi ed elaborazione dell’Autore, tratta dalla “Campagna seme certificato 2020” di Assosementi)
Leggi l'articolo su Agricommercio e garden center n. 3/2021
Dall’edicola digitale al perché abbonarsi