Il capnode delle drupacee (Capnodis tenebrionis)
è un insetto diffuso nel Bacino mediterraneo
nelle aree più calde di coltivazione,
dove causa rilevanti danni economici su
albicocco, susino e ciliegio. Dato l'impatto, in
alcuni Paesi mediterranei sono attive linee di
ricerca per trovare soluzioni efficaci.
Con il professore Enrico de Lillo, docente
dell'Università degli Studi Aldo Moro di Bari,
impegnato da anni nello studio del capnode,
abbiamo discusso delle attuali conoscenze
sull'insetto e delle possibili innovazioni per il
suo controllo.
L'effetto del global warming
Il capnode è specie endemica in Italia ma soprattutto
nell'ultimo ventennio sembra aver
aumentato i suoi danni sulle drupacee coltivate
e risulta in espansione anche verso il
Nord. Quali sono le cause?
«Segnalazioni di danni economici a frutteti
ci sono sempre state nell'Italia meridionale e
insulare con una più intensa manifestazione
soprattutto negli ultimi 20-25 anni. Nell'ultimo
decennio ci sono state segnalazioni sempre
più preoccupanti anche nelle regioni frutticole
settentrionali.
Studi condotti in Sicilia, Puglia e Basilicata
sulla diffusione e la gravità delle infestazioni,
soprattutto su albicocco e ciliegio, sembrano correlare la recrudescenza delle infestazioni
agli innalzamenti della temperatura
dell'annata e all'accentuarsi dell'aridità estiva
(periodo durante il quale avviene la deposizione
delle uova), fenomeni che di solito ormai
connotano il cambiamento climatico in
corso nell'intero areale mediterraneo».
Obiettivo monitoraggio
Sappiamo che nelle fasi iniziali delle infestazioni
il capnode non è facile da individuare. È
ipotizzabile lo sviluppo di efficaci sistemi
di monitoraggio?
«In realtà l'insetto adulto è facile da individuare
data la sua dimensione e colore, ma riesce
a sfuggire facilmente alla vista dell'operatore
con il suo comportamento. La larva non può
essere riconosciuta in quanto vive nelle radici
che non sono esplorabili. Purtroppo, potrebbero
essere sufficienti pochi adulti per
colonizzare il frutteto e infestare largamente
le piante presenti. Per poter pensare a un
serio monitoraggio, anche con bassi livelli di
densità di popolazione, è ancora necessario
approfondire le conoscenze sulla biologia ed
etologia del capnode come pure l'influenza
delle condizioni ambientali sulle diverse fasi
del ciclo biologico.
Attualmente si sta lavorando attivamente per
chiarire i meccanismi di attrazione sessuale
e di riconoscimento degli ospiti che consentirebbero
di realizzare sistemi di monitoraggio
o di cattura. La produzione di feromoni
sessuali volatili, in parte dubbia, è ancora
oggetto di indagine e pare che parte della
regione dorsale del torace della femmina
possa essere coinvolta nei rituali di accoppiamento.
Questi aspetti richiedono ulteriori
approfondimenti come anche la verifica che
le sorgenti di alcune radiazioni all'infrarosso possano essere attrattive per individui
di entrambi i sessi.
Al momento non si dispone ancora di una
banca dati delle specifiche sostanze volatili
emesse dalle prunoidee nelle varie condizioni
fisiologiche. Quando queste saranno
disponibili, sarà interessante saggiare la risposta
degli adulti per verificare l'attrazione
soprattutto di quei segnali odorosi che vengono
emessi dalle piante debilitate, le quali
sono notoriamente le più attrattive».
Nuovi mezzi di controllo
Sappiamo che il controllo chimico non è quasi
mai completamente risolutivo e, comunque,
in Italia è specificamente registrato un
unico insetticida, lo spinosad. Ci saranno
novità nel prossimo futuro?
«In passato sono state utilizzate sostanze
attive piuttosto persistenti, anche in forma
polverulenta, appartenenti a varie famiglie
chimiche (esteri fosforici, carbammati, fenilpirazoli)
oggi non più disponibili. Lo spinosad,
che è ammesso in agricoltura biologica, ha
ottenuto in Italia l'estensione di etichetta sulle
principali drupacee coltivate (registrato su
pesco, nettarina, albicocco, ciliegio, susino,
amarena, mirabolano, con al massimo 3 trattamenti
annui) mentre altre sostanze attive
sono in valutazione e potrebbero essere registrate
nei prossimi anni. Tra queste l'imidacloprid
è risultato efficace nel controllare gli
adulti quando viene applicato al terreno in
impianti molto giovani e in vivaio; thiacloprid
sì è dimostrata una molecola interessante in
prove preliminari di laboratorio e, quando è stato applicato contro altri insetti bersaglio,
sembra aver contenuto anche il capnode.
Per ovvi motivi ecotossicologici, i trattamenti
con prodotti chimici polverulenti, riportati in
letteratura, non sono proponibili».
Oltre ai prodotti insetticidi, ci sono linee
di ricerca promettenti per sviluppare altri
mezzi o strategie di controllo?
«Recenti indagini di laboratorio hanno confermato
la correlazione negativa tra il contenuto
idrico del terreno (espresso come
capacità idrica di campo) e la percentuale di
schiusura delle uova. Questi dati potrebbero
trovare applicazione nei campi irrigati, mantenendo
abbastanza umidi gli strati superficiali
nel periodo di maggiore ovideposizione.
È necessario, tuttavia, definire con maggiore
precisione la distanza dal tronco entro cui avviene
la deposizione delle uova e la capacità
delle larve neonate di spostarsi alla ricerca di
organi idonei a essere infestati.
Dalla bibliografia, è poco nota la suscettibilità
dei portinnesti agli attacchi delle larve del
capnode e il ruolo dei cianoglucosidi sembra
controverso. La messa a punto di un efficace
sistema di allevamento delle larve su substrati
specifici potrebbe consentire un saggio
preliminare dell'azione dei cianoglucosidi
o di altri composti e migliorare la comprensione
del fenomeno. Analogamente, prove di
infestazione da larve neonate su portainnesti
diversi potrebbero essere alquanto indicative
e informative.
Fino a pochi anni fa l'efficacia in campo di
nematodi entomoparassiti contro il capnode
non era ancora stata provata e si disponeva
di esiti positivi provenienti da saggi di
laboratorio con ceppi di Steinernema spp.
ed Heterorhabtidis bacteriophora applicati
contro larve neonate e adulti. Recenti esperienze
hanno evidenziato la concreta applicazione
di campo. Tuttavia, questo metodo
di controllo richiede l'accumulo di maggiori
esperienze di campo, per ottimizzare tempi e
metodi di applicazione. Sicuramente l'uso dei
nematodi consentirebbe di risolvere in maniera
ecocompatibile il problema della scalarità
di deposizione e schiusura delle uova,
programmando somministrazioni frazionate.
Sperimentazioni da noi condotte in collaborazione
con l'Università di Cordoba (Spagna)
hanno evidenziato anche l'efficacia di funghi
entomopatogeni. In particolare, risultati promettenti
sono stati ottenuti impregnando di
conidi fungini fasce in fibre di poliestere da
applicare ai tronchi a mo' di cinture e idonee a
intercettare gli adulti di capnode che, principalmente
dopo lo svernamento, guadagnano
la chioma arrampicandosi lungo il fusto anziché
volando. L'ostacolo meccanico frapposto
dalle barriere rallenta significativamente
la risalita degli insetti e ne procura un abbondante
imbrattamento con polvere conidica,
sufficiente a infettarli e ucciderli».
Allegati
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